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ERICA

La seconda silloge, Erica, Manni, Lecce, 2000, fa subito pensare, a una prima lettura, che in essa si è perso non poco dello stile prosastico della precedente; formalmente, difatti, i componimenti di Erica si avvicinano di più alle caratteristiche stilistiche del genere poetico: vi sono assonanze, enjambements, allitterazioni; rare sono le rime e poste con riservatezza e cautela nel corpo dei versi. Il ritmo che alcuni di questi possiedono è un ritmo pressoché ignoto o sconosciuto a quelli de L’oro unto. Il mondo dell’ispirazione sembra essersi allargato e a testimoniarlo sono le stesse parole utilizzate, i colori con cui sono dipinti i quadri. Vi sono vocaboli appartenenti a civiltà e culture distanti dalle nostre, riferimenti a miti di altri paesi. Si assiste parallelamente alla perdita di quello stile precedente basato sulla chiusa epigrammatica per approdare a un altro tipo di orientamento e di poesia, sempre attuale, caratterizzato da un’apparente facilità di scrittura e di senso; “apparente”, perché in realtà i contenuti si prestano a ulteriori indagini e approfondimenti, come testimoniano i vari simboli e la densità di immagini che caratterizzano alcuni componimenti. Sono gli oggetti che, nella loro apparente, normale e banale realtà, quasi scontata, si caricano di significati “altri”, di messaggi nascosti, di “corrispondenze”. Se così non fosse non avrebbero potuto trovare spazio i miti (dell’Africa, della classicità, dell’India). Vi sono, più che nel precedente libro, immagini felici e squisitamente poetiche (il “sole” come “piccola anguilla sottile” di pag. 21 o la metafora del fuoco di pag. 45); c’è insomma, una maggiore libertà sintattico-versificatoria e maggiore è l’orizzonte dell’ispirazione.

 

Maurizio Marota

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