RECENSIONE DI F. SCARABICCHI N. 1
RECENSIONE DI F. SCARABICCHI N. 2
in "Il rosso e il nero", anno 6numero 12, aprile 1997, pp. 98-100
Nel tempo
(...)
cosa può essere un uomo in un paese,
sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante
e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai.
Vittorio Sereni, Gli strumenti umani
Il tempo è l'ordine della misura, il battito dentro cui "avviene" l'inconcepibile della vita che possiamo percepire e accogliere solo nell'atto del suo essere stato, non nel faticoso farsi quotidiano. Il tempo è l'argine lungo il quale camminiamo, passanti devoluti al nulla dopo la durata precaria del transito. La scrittura è il luogo in cui è possibile l'avvalersi del senso, il bagliore che rende incandescente ciò che subito dopo sparirà per sempre: nomi, sentimenti, persone, cose, percezioni, paesaggi, sguardi, epifanie, sogni. La scrittura del verso è un'ulteriore opzione che risponde, in tutto e per tutto, a quanto sosteneva Alfonso Gatto più di venti anni fa:
"Così scoprii che la poesia, lo scrivere per espressione, era appunto il modo per consegnare la parte più leale di noi rispetto a tutta l'altra parte contratta che si spendeva nella vita. (...) Se l'uomo riuscisse ad avere negli affetti, nel proprio amore, nella propria relazione con gli altri uomini, un'autenticità di vita, una risposta di vita alle proprie domande, se cioè potesse vivere secondo l'immagine che egli ha della vita stessa non avrebbe bisogno di scrivere. Gli basterebbe vivere, comunicare. Ma tutto questo evidentemente gli manca e perciò scrive, e scrive anche per gli altri uomini che vivono la stessa crisi e che, pur comprendendola, non riescono ad avere la forza, le qualità sufficienti per preservare dentro di sé, in questa disperazione, in questa ostinata scelta, la loro parte migliore."
La vocazione ad interrompere il silenzio del bianco della pagina è un atto consapevole ed indifeso che risponde all'indicibile impulso che nasce prima della parola, là dove si perde ogni più piccola luce, alla sorgente del buio che inonda tutto l'universo sensibile che siamo. L'incipit sta forse nell'intuizione dello smarrimento, come se ognuno si sapesse perduto in un'ignota contrada del firmamento e dovesse faticosamente ritrovare la strada del ritorno.
E' questo il sentiero lungo il quale cammina Norma Stramucci fin dai versi d'esordio (L'oro unto, con una nota di Massimo Raffaeli, Pescara, Edizioni Tracce, 1995) e che prosegue, nella scelta degli inediti qui offerti, articolando la sintassi della sua pronunzia dal di dentro di un'accresciuta presenza lessicale, ulteriore disposizione a spiare le vicissitudini del suo universo, gli eventi che non si ripeteranno, le catastrofi d'ogni ora, le mutazioni, l'opera che consuma tutto, nulla lasciando intatto.
La sua voce ci raggiunge da un angolo: ferma, decisa nel tono, concreta anche se apparentemente sviata dalle venature del simbolo o dalle piccole ombre dei miti; si consegna alla sua verità ostinata nel battito del bisogno, tenace e radicata come il sostantivo che raccoglie i versi ed ha bisogno, per vivere le sue stagioni, solo dell'indispensabile.
La trama dei testi è una misura asciutta con nessuna o quasi concessione all'indulgenza del canto; scandisce e detta il metro che custodisce le forme dell'armonia sul confine di una bellezza continuamente scheggiata, contrasta la sempiterna opacità che tenta di nascondere la luce d'ogni corpo e d'ogni cosa, l'insulto che turba e offende l'innocenza d'uno sguardo muto.
Continui innesti di vissuto e grafie esatte dell'epica (lontani dalle solennità e dagli smalti), si rivolgono ad una lettera domestica e avvicinano "il tema", quell'unico perimetro costituito dalla "casa", metafora e involucro, stile e placenta, lingua e madre.
E' un'orma femminile che attraversa le ore delle stagioni e si cela dietro e dentro i piccoli insetti dei pronomi personali e possessivi; un femminile che trema e ascolta le presenze della notte e del buio, che veglia e sente il passo freddo, l'incombenza di una minaccia.
Cerca il ritmo del proprio ordine, la sosta nella paura, il sentiero che costeggia l'ombra insopprimibile contrastandola con l'aristocrazia umile dei colori che esclamano gettando lampi e riverberi, onde di bianco e argento. C'è poi la geografia del cielo, la piccola cosmogonia privata, il paradiso delle sue divinità, la preghiera sommessa, l'oltre.
Si nutre di una inesauribile passione chiusa dentro lo "scrigno" della sua protezione, ben al di là d'ogni madreperla ("I muri esterni di questa mia casa / sono tutti una lastra d'avorio istoriata"): anima e corpo a presidio di quello che la Stramucci definisce inequivocabilmente "il migliore / dei possibili mondi", locus e dimora, Paradiso e isola, soglia e lume.
Porta impresso nel nome - Norma - ciò che stabilisce la graduale definizione di una scrittura che sale dall' autenticità della sua distanza e impone, come sempre, la costanza d'una solitudine che nulla promette, sebbene imponga il perdurare nel tentativo d'approssimarsi a ciò che non sappiamo né, forse, sapremo mai.
Francesco Scarabicchi