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CAPITOLO I

CAPITOLO XII

Spesso accade che la piccola Eliana  alla madre chieda  di cose

che in terra non esistono più: grandine oppure carboni ardenti, 

candore di neve o fuoco divorante;

insomma il mondo intero, dal fondamento al cielo,

il dio Lamor ha mutato in luogo grigio.

A malincuore alla bimba risponde Maria,

perché i ricordi sono fitte al cuore: il lilla, l'arancio, e ogni altro colore.

 

La finestra di casa è chiusa; e Eutimio, l'uccello del quale si ignora la razza,

aspetta fuori paziente che la bimba o la donna guardino ai vetri.

Da quell'appartamento lui esce e ritorna:

non è un animale da chiudere in gabbia.

Eliana con accanto il fratellino Paolo si incanta al moto delle sue ali grandi;

e come la cerva anela ai corsi d'acqua, pensa voli Eutimio

lontano, in cerca di una compagna.

 

"Dove il cielo finisce e c'è posto per un fiume azzurro, e prati e valli verdi,

lì getterò i miei sandali.

Se adesso a morte seppellisco i fiori grigi, con lacrime grigie,

lì china a terra coltiverò con la zappetta variopinti tulipani, e petunie;

e la rosa che ha il profumo dell'amore".

La nipote di Maria, Ilaria, a Eutimio dice:

"Lì mi condurrai".

 

Il dio Lamor si è ripreso i colori e ha emesso la condannna

per il sangue innocente dei bimbi maschi

che muoiono tutti e non diventano adulti.

Non è in ansia Maria per Eliana che fiorisce insieme al suo temperamento:

chiudendo gli occhi se la vede pallida e con le guance sfumate di vermiglio.

Paolo le dà solamente che pena;

e pensando che il Lamor salva le donne,

ingentilisce il bambino ispirandosi a Eliana;

e prega intensamente.

 

Sulla terra periscono i bambini che si ammalano perdendo

se stessi a poco a poco.

Pare l'anima machi al corpo di Paolo:

pecorella che mai alza la testa, che non guarda da una parte o da quell'altra,

non abbraccia la madre o la sorella.

"Nel suo cuore che non ci appartiene"

-Ilaria sussurra a Enrica, la vecchia vicina-,

"sembra nasconda foglie rosse d'autunno,

oppure un bosco fresco d'estate e di pioggia.

Paolo è un tenero fruscello che solo al vento affida la sua esistenza".

 

Al dio non arriva la voce delle donne: grida di sofferenze e lutto,

tese le loro infaticabili mani dalle tombe dei figlioletti maschi.

Il dio non sente Ilaria che sogna

la rosa colorata che ha il profumo dell'amore.

Il dio non uccide la Hùtama malefica:

il demonio che crea le figure del buio, mostri che soffia addosso alle persone.

 

Il dio non dà tregua al cuore di Maria che fa grigi i ricami sui grigi teli.

Guadagnava bene una volta, quando a Recanati le donne tutte,

chiedevano le sue lenzuola e tovaglie ricche,

tanto che fossero bianche immacolate oppure variopinte.

Le madri adesso non domandano più i corredi

perché muoiono i bimbi, e le figlie non andranno mai spose.

 

Maria posa lo sguardo al cestino dei fili quasi a vederci l'arancio od il rosa;

si scuote a un tratto e tristemente,

col gesto di chi coglie un fiore appassito,

dal suo cestino prende una gugliata di grigio;

e sulla stoffa non vale la sua perizia estrema,

si vedono appena le minuscole pansé e i nontiscordardime;

e le lettere del sonno e dell'amore non contano più nulla sui cuscini.

 

Ilaria annoiata ricama per la zia:

si miete con pazienza -lei pensa- solo se dopo c'è la festa del grano.

Con indulgenza Maria guarda i suoi lavori mai perfetti;

mentre Eliana ruba, coinvolgendo il fratello che non capisce, gli aghi alla madre.

In aria li lancia con la cerbottana, per lacerare in qualche punto il cielo,

perché da un piccolo buco possa trapelare un filo di colore.

 

Ilaria talvolta partecipa al gioco e lancia Eutimio in cielo

perché con il becco compia il prodigio.

Ilaria pensa all'amore che ha il profumo della rosa,

e Enrica dolcemente le spiega

che il Lamor fa nascere i maschi per morire e non per amare;

e che l'odore della Hùtama è più forte in terra dell'effluvio dei fiori.

Quasi fosse stato un covo di belve,

dal paese del lunghissimo dormire si allontano in fretta Andrea e Ilaria;

ma come -la Natura ha detto-

lo scoiattolo fugge dal serpente a sonaglio e poi gli cade in gola,

così l'ispettore del canto in terra e la sua sposa

giungono dove la Hùtama fomenta la sua ira,

e lanciando ululati, rabbiosa e selvaggia: ride,

mentre terribili inventa le figure del buio.

 

 

Il volto del demonio ha guance gonfie di rana e denti piccoli, e lividi e guasti,

le palpebre incrostate di caligine di pece;

ma sono le narici larghe e turgide di un bue,

a sfiatare fetide e immonde, le figure del buio;

dapprima imprecise e quasi palpitanti;

poi forti e dure, sprizzando il veleno della loro dea,

annientano in terra camosci e caprioli, cocorite e colibrì;

e dove passano non crescerà più erba:

della regina, o lucciola o morella, uva di volpe o acetosella.

 

 

Boschi folti, e pascoli e piantagioni, ardono come stoppie, in ceneri e faville;

da stagni e laghi aperti e fiumi emerge il fango:

se muovono le acque, se accendono le torce.

E uccidono la gente, se la Hùtama le soffia addosso alle persone.

 

 

Hanno la forma dello scorpione enorme che con gli arti mascellari cattura la preda;

di sfinge testa di morto, con le antenne uncinate e micidiali.

 

 

Hanno la forma piccola del morbo che toglie ossigeno al sangue,

o di quello che penetra nel corpo attraverso la cute e le mucose:

qualsiasi aspetto la Hùtama che ride, demonio maleodorante, è in grado di soffiare.

 

 

Non è fredda la paura, anzi le membra avvolge nel bollore;

così l'uno all'altra avvinti, e senza una lacrima versata,

Ilaria e l'ispettore del canto in terra offrono alla morte tutto il loro pianto;

mentre scorrono gli occhi su leoni che hanno corna e fauci,

su millepiedi calzati con zoccoli di cavallo;

su un ibrido centauro,

o su una bolgia di insetti dalle fauci crudeli o artigli adunchi e pungenti.

 

 

Poi la Hùtama, come bestia famelica, ringhia verso il cielo,

sprizzando bile e veleno, e mille delle terribili figure del buio;

ma nulla possono quelle contro le lune comparse,

che come bianche colombe, gli uccelli sereni, odore di primavera,

lontani dal demonio conducono Ilaria e l'ispettore del canto in terra.

 

 

"Noi siamo le lunine, sdentate e vecchie nella valle del Sangro.

Nessun oscillografo al mondo può dire che esistiamo;

ma la nostra materia animosa è voluta dal Lamor

che nel sogno ci ha dato la morte dolce quanto i fiori ornitofili,

celesti e velenosi, che nutrono gli uccelli della razza di Eutimio".

 

 

Parlano sempre in coro le lunine ancora più sorridenti.

"E' bianca, leggera e beata, la musica dei vostri sogni".

Esclama l'ispettore del canto in terra,

ma le lunine così dicono a lui e Ilaria:

"Ora fate silenzio, perché dove vi conduciamo

è il regno del Lamor, il dio della gloria".

 

 

E quando arrivano, aggiungono soltanto: "Addio".

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